L’antiretorica di un Maestro: ricordando Rosario Frazzetto. «L’occhio di bronzo» (Le Farfalle Edizioni)
Nel nome di Rosario Frazzetto, maestro, scultore. Uno che pensava con le mani. E che se le sporcava, nella sua bottega-officina. Sul filo dell’affetto e del ricordo, si snoda «L’occhio di bronzo» breve ma folgorante hommage a quattro mani – e quali mani: Tano Brancato, Giuseppe Frazzetto, Paolo Nifosì e Antonio Rocca – uscito nel 2013 in occasione del centenario della nascita di Rosario Frazzetto (1913-1980) e che oggi riproponiamo per ricordarlo a quarantadue anni dalla morte, avvenuta il 26 febbraio del 1980. Un saggio che inaugurava la collana turchese de «Le Farfalle» di Angelo Scandurra. Quattro scritti che restituiscono la figura esemplare di un artista e del suo rapporto non solo con la città e tutte le sue contraddizioni ma, nel suo modo di vedere e di sapere fare scultura, anche con il resto dell’arte europea a partire dagli anni ’50 del Novecento.
Il burbero aspetto di Giuseppe Frazzetto, nell’occasione della presentazione non certo in veste di filosofo dell’arte, di acutissimo critico, di intellettuale tout-court ma di filius commosso e ed emozionato, si scioglieva in una misurata e piacevolissima rievocazione – come/ se si potesse far segno con gesti umani/ a quanto non esiste per noi, con lacrime/ o brividi o risa incondizionate, scrive proprio Frazzetto in una delle due liriche dedicate al padre – anche di tutta una koinè artistica e culturale (insaporita pure da brillanti aneddoti) che lui stesso aveva già ricostruito, nel 1988, in «Solitari come nuvole», per i tipi di Maimone, densa monografia su «Arte e artisti in Sicilia nel ‘900» e dedicata proprio al padre. Ne esce fuori il ritratto, per alcuni versi inedito, di una delle maggiori personalità della scultura isolana, di un «monaco votato all’arte», co-fondatore e promotore infaticabile dell’Accademia di Belle Arti di Catania: Rosario Frazzetto lo scultore-insegnante, fuori da ogni ragione e regione commerciale, artista-artigiano di cui Paolo Nifosì tratteggia la poetica con profonda leggerezza. Un essere-scultore che parte «dalla vita dei quartieri popolari catanesi, dai racconti più avvertiti in cui i miti greci e le iconografie cattoliche s’incontrano col dialogo quotidiano e le pulsioni dell’eros s’incontrano coi quartieri mitici (oramai cancellati dal cemento armato) del cuore della civita catanese.» E non a caso Rosario Frazzetto apparteneva a quella «scuola catanese» cui vanno pure ascritti, tra gli altri, Carmelo Abate ed Emilo Greco, Salvo Giordano e Concetto Marchese, tenuti insieme da un denominatore di matrice estetica, quell’«Ethos Etna» – la suggestione a posteriori è dello stesso Giuseppe Frazzetto – e protagonisti di un passaggio epocale che la tensione delle loro opere sprigionava: ovvero quella «saldatura fra maestria tecnica e inquietudine dei tempi nuovi» all’interno di una Catania, capitale mancata, attraversata ora dalle «tensioni della metropoli», ora votata alla «dannazione del provincialismo». Dunque in un contesto ancora più difficile da decifrare perché in perenne crisi identitaria. E in questo clima Rosario Frazzetto, l’antiretorico per eccellenza, percorreva le strade nuove della scultura come ricerca, cimentandosi, quasi alla fine della sua vita, con l’incisione e con i piccoli bronzetti: «grandi» invero, perché – come rimarca Antonio Rocca – l’aggettivo più che descrivere le dimensioni diventa una «attitudine, un portamento virtuale, un imporsi autoritario come grandezza morale». E così è stata per Rosario Frazzetto la sua poieo: un’attività pura, slegata da ogni sollecitazione economica e che – anche per questo – risulta in gran parte, quando non trafugata, irreperibile. E proprio in nome di quella ricerca e di una effervescente curiositas l’operosità intelligente di Frazzetto si volge, per esempio, all’immaginario sedimentato della cultura mediterranea nella insolita, eccentrica rimodulazione del tema del Ciclope (nella foto), che indichiamo come esemplare del senso di tutta la sua attività. L’occhio cieco del suo Ciclope (1976) infatti, ferito e senza luce che abbraccia e vede – come ha suggerito Tano Brancato – «la mutilazione, la perdita cognitiva, accecamento del pensiero e della luce intellettiva», può anche essere non solo una riflessione sull’arte, la metafora di una condizione di straniamento e di incomprensione ma espressione del felice pessimismo, consustanziale, di Rosario Frazzetto e di una energia vitalistica che insegue il divenire delle storie e delle singole esistenze. Quell’occhio – vigile per assenza – che Giuseppe Frazzetto continua amorevolmente, nello struggimento della trasmissione della carne e della tenerezza filiale, a fissare, a interrogare: «Padre, dov’eri quando non guardavo?»