«L’arazzo algerino». Pregiudizio e stigma sociale nel romanzo di Antonio Pagliuso

Fa sempre piacere imbattersi in un giovane autore capace di esprimere, malgrado l’età, una scrittura matura e ben calibrata che lascia intuire un background di solide e importanti letture. È quanto accade leggendo L’arazzo algerino di Antonio Pagliuso. Critico letterario, curatore della rivista “Glicine”, ideatore e direttore artistico della rassegna “Al Vaglio”, Pagliuso oltre che un instancabile promotore culturale è anche una delle penne più interessanti della nuova narrativa calabrese. L’arazzo algerino è il suo secondo romanzo, uscito nella primavera del 2022. La storia è ambientata in un piccolo centro del Meridione d’Italia, Longadonna, negli anni Settanta. Archetipo di tanti paesi del Sud, Longadonna è un luogo dove le giornate trascorrono lente e tranquille, secondo un ritmo naturale scandito dagli orari di lavoro e dai piccoli riti quotidiani e familiari, e non ancora travolto dalla frenesia del progresso. Qui vive la famiglia Lemoine, di origini francesi: marito, moglie, la figlia maggiore, brillante studentessa e voce d’angelo su cui la famiglia ripone alte aspettative, il fratellino di dieci anni e la nonna materna. L’apparente serenità della famiglia Lemoine e dell’intera comunità è sconvolta da un improvviso ed efferato delitto: Polina, la primogenita, viene trovata morta nella sua stanza. Il racconto si colora dunque delle tinte del giallo. E tuttavia si tratta di un giallo atipico, velato di malinconia, a tratti nostalgico, i cui personaggi, malgrado sembrino assorbiti dalla vociante e promiscua vita sociale propria di un paese meridionale, sono in realtà ognuno schiavo di una propria solitudine, muta e lacerante. Nel libro di Pagliuso il genere del romanzo giallo sembra quasi fungere da pretesto per la trattazione dell’argomento che maggiormente sta a cuore all’autore: il pregiudizio e il suo radicamento nella comunità, lo stigma sociale, pervicace, resistente, duro da estinguere e anzi dotato quasi di una proprietà transitiva tale da farlo perdurare e trasmettere da una generazione all’altra. In questa storia di solitudini e di frustrazioni anche il commissario chiamato a far luce sul delitto è un antieroe sconfitto dalla vita e costretto a fare i conti con i propri fantasmi. Lo stesso presunto colpevole è in fondo una vittima, delle circostanze come di un’atavica colpa che aleggia da tempo sulla sua famiglia. Pagina dopo pagina ci rendiamo conto che niente è come sembra, e il doveroso colpo di scena finale anziché offrire consolazione o redenzione porta solo alla constatazione degli abissi insondabili dell’animo umano e dell’impossibilità, per chi resta, di darsi pace. La sapiente costruzione della trama, l’approfondimento psicologico dei personaggi, la bellezza senza orpelli dello stile, orientano il lettore verso non poche e importanti riflessioni. Colpisce una frase che troviamo all’inizio del libro: «Non esiste condizione alla quale l’essere umano non possa abituarsi», e poi, in forma leggermente diversa, nelle pagine conclusive, quasi a chiudere un immaginario cerchio: «Ci si può davvero abituare a tutto. Serve solo che la vita ci dia tempo a sufficienza per farlo». Sono parole che riecheggiano Fëdor Dostoevskij, scrittore caro a Pagliuso e più volte affiorante in questa storia di “delitto e castigo”. Parole che inducono a una necessaria riflessione. L’essere umano è senza dubbio l’animale più adattabile del pianeta, cosa che lo rende anche il più resistente e che da un lato è un bene e una virtù in quanto aumenta le sue possibilità di sopravvivenza. Ma, dall’altro lato, può anche rivelarsi il peggiore dei mali. Adattarsi significa sì sopravvivere. Ma a quale prezzo? Abituarsi può voler dire assuefarsi, arrendersi, accondiscendere alle miserie della vita, alle brutture del mondo. Può significare accettare di (soprav)vivere in mezzo alla violenza, alla tirannia, alla privazione dei diritti e della libertà. Il dolore per la perdita di una figlia passa attraverso un’acuta riflessione linguistica: «E non esiste neppure una parola per definire questa condizione. Esiste l’orfano, il vedovo, la vedova, ma per un padre che perde la figlia, la lingua italiana perde le parole». Mentre parole delicate descrivono l’ultimo saluto alla ragazza uccisa: «Polina, adagiata su una nuvola di raso, vestiva una lunga tunica bianca di stile vagamente orientale, in armonia con la virginale purezza che la ragazza ancora adesso emanava. I lembi di un foulard chiaro le scendevano sulle gote, fino al collo straziato, serrandosi in un ampio nodo, quanto più grazioso possibile. Fra i capelli sciolti erano sparsi alcuni fiorellini azzurri, omaggio a quella gioventù che non avrebbe conosciuto inverno […] Centinaia di occhi convergevano sulla bara che ora superava per l’ultima volta la soglia; Polina era lì dentro, nel suo candore abbagliante, circondata da quei fiori che tanto bene stanno in un funerale, giacché, posti in ordinate composizioni, sono anch’essi nient’altro che cadaveri: cadaveri di strelitzie, rose e gerbere che giacciono e perdono il loro profumo e i loro colori così come un corpo perde la sua anima e il suo vigore». Oltre al già citato Dostoevskij aleggiano tra le pagine de L’arazzo algerino altri grandi autori, da Leonardo Sciascia a Cesare Pavese, a Gabriele d’Annunzio fino al più recente Carlo Lucarelli, a conferma del fatto che ogni scrittore che sia degno di questo nome è in primo luogo un vorace e onnivoro lettore e che il piacere di leggere un libro è tanto più intenso quanto più venga fornita a chi legge la possibilità di scovare innumerevoli rimandi e colte citazioni. Proprio perché acuto e sagace conoscitore del genere giallo, come di tanta e alta letteratura italiana ed estera, Pagliuso può concedersi il lusso di piegare il giallo al proprio scopo precipuo: farne cioè un amaro apologo sul potere dello stigma sociale che corrode tutto come una ruggine lenta ma inesorabile e imprigiona la ragione tra le brume inestricabili di antichi retaggi duri a morire. Di fronte a una verità che gli uomini non vogliono vedere, non resta che l’arazzo algerino del titolo, silente e indiretto spettatore, testimone muto, allegoria – con la sua trama di fili che dovrebbero formare un disegno figurato – di una matassa che la ragione ottenebrata dal pregiudizio non sa dipanare.

Antonio Pagliuso, L’arazzo algerino, Dialoghi 2022, € 13,00

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