“Io ero più felice se nascevo maschio…” Viola Ardone, Olivia Denaro per Einaudi

“Io ero più felice se nascevo maschio….”

“La femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia”, questo ripete sempre la madre a Oliva, la protagonista del nuovo romanzo di Viola Ardone, Oliva Denaro (Einaudi). E’ una metafora amara che sintetizza in poche parole il destino delle donne, soprattutto al Sud, fino al 1981, quando venne approvata la legge 442 che abrogava il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, una legge che, di fatto, legalizzava lo stupro, lo assolveva e consegnava la donna al suo stupratore per tutta la vita. La prima donna che, in Sicilia, si rifiutò di sposare il suo violentatore, Filippo Mendolia, un mafioso che aveva cercato di distruggere lei e la sua famiglia, fu Franca Viola che nel 1966, a soli diciassette anni ebbe il coraggio di ribellarsi a questa legge crudele e denunciò il suo carnefice. Dalla sua scelta, dal suo coraggio e dalla battaglia che una deputata comunista portò in Parlamento, fu decretata la fine del “matrimonio riparatore”, retaggio di tradizioni risalenti alla Bibbia e di leggi antichissime come le Costituzioni di Menfi volute dall’Imperatore Federico II (come non ricordare il Contrasto Rosa Fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo dove questa assurdità viene ricordata con sarcasmo e volontà di denuncia?). Viola Ardone docente napoletana, già nota per il successo Il treno dei bambini, del 2019, ha raccontato questa storia emblematica, cambiando i nomi dei protagonisti, i luoghi e l’ambientazione ma rivelando semplicemente nel finale, nella quarta parte del romanzo, quando inserisce gli esiti parlamentari di quella vicenda, che Oliva è Franca, la prima donna capace di dire no. Il mondo di Oliva, la sua famiglia, l’ambiente del paese, è una comunità patriarcale, con leggi rigide: lei è una femmina e deve sottostare a un destino segnato, alla sottomissione al maschio padrone per il quale deve mantenersi illibata, “sana” appunto, e lei accetta tutto ciò che comporta l’essere femmina: non dare mai conto, tenere gli occhi bassi, non uscire mai da sola, rinunciare, persino, agli studi. Finché può lei accetta. Accetta che siano i genitori a cercarle un fidanzato, accetta di restare isolata, di non mostrarsi in giro, di limitarsi ad aiutare la madre a casa, persino di rinunciare di seguire il padre in campagna mentre raccoglie lumache e rane, suo grande piacere da piccola, non tanto per le lumache ma per stare da sola col padre. Sa che non può sottrarsi a quella modalità di vita, a quella necessità di protezione nei suoi confronti, da quando la sorella Fortunata è rimasta incinta e si è dovuta sposare per forza. Tutto questo lo sa e lo accetta; anche perché la madre le ripete continuamente le regole: “mantieniti pulita, la femmina è una brocca…” Lo sa anche quando la maestra cerca di farle capire altro, le insegna che la donna può essere anche autonoma, anche “femminile singolare”, che pure al suo paese suonava tanto strano. Ma un uomo si insinua nella sua vita, in forma subdola prima, violenta dopo. Minaccia la sua famiglia, distrugge le terre del padre, le rovina la vita, letteralmente, sciupando la sua integrità con un atto di violenza organizzato e protetto da una rete di connivenze e maldicenze. A questo Oliva non cede. Non accetta la “paciata”, il tentativo di sanare l’accaduto con il matrimonio riparatore. Lei denuncia, col sostegno del padre (“Questo faccio io… se tu inciampi io ti sorreggo”), e anche della madre che, alla fine, si ricorda di essere, anche lei, femmina, di avere già visto la rovina di una figlia infelice e sola. La denuncia comporterà un processo, una deposizione dettagliata e insinuante da parte dei giudici che ordiscono un processo contro di lei, come se la colpevole fosse lei, e che, infatti, assolvono l’uomo perché il fatto non sussiste, perché lei, in fondo, aveva acconsentito, perché non aveva urlato, perché a una festa in paese aveva parlato con lui, perché aveva accettato da lui un’arancia. Così è Oliva che deve andarsene dal paese, come tutta la sua famiglia, per non sopportare la doppia vergogna, per non dovere vivere nascosta, per fuggire da quelle compagne che l’avevano additata. Ma la fuga non è una sconfitta e, soprattutto, non è definitiva. Oliva tornerà, sceglierà di insegnare nella stessa scuola dove aveva imparato le declinazioni e dove la maestra le aveva insegnato che si può scegliere. Un romanzo potente di denuncia e di necessità di riscatto, dove la condizione di inferiorità delle donne viene in ogni modo sottolineata; una denuncia che nel XXI secolo è ancora necessaria come ai tempi in cui Cielo d’Alcamo, da giullare, raccontava al popolo la legge della “difensa” e come la donna potesse essere considerata solo merce da comprare, “brocca da risanare”. La citazione della poesia ricorre proprio sulla bocca di Paternò, il giovane prepotente che cerca prima di sedurre e poi rapisce Oliva. Ogni volta che l’incontra le rivolge il complimento: “Rosa fresca aulentissima”. La vicenda di Oliva assume tutti i caratteri del percorso di formazione, nelle prime tre parti del romanzo la voce narrante coincide con lei, il punto di vista è sempre quello degli occhi e delle emozioni della ragazza. Nella quarta parte il racconto si fa a due voci: Oliva e il padre che, in una narrazione a specchio, ripercorrono l’ultima tappa, il festeggiamento di tutti i traguardi, la vittoria finale di lei, una ragazza che ha alzato la testa con dignità e coraggio, e di tutta la famiglia, il fratello, la sorella, il marito, Saro, che ha finalmente sposato e che amava da sempre. Il padre è il personaggio parallelo alla vita di Oliva, è il suo sostegno, la sua forza, le sue radici, la sua speranza. Una figura tragica ed eroica, di quegli eroi piccoli, mite, ma capace di riconoscere il bene dal male e saper fare la cosa giusta. Lui, che non ha saputo difendere la prima figlia, prende per mano Oliva, le dimostra che non sarà mai sola, la solleva e la sostiene con tenerezza infinita, con una dignità che non è fatta di falso perbenismo e strategie di facciata, ma è quella vera di chi non ha niente di cui vergognarsi e può andare a testa alta, col suo cappello “nuovo” dopo che il primo gli era stato distrutto apposta. Un romanzo davvero importante, scritto con leggerezza e musicalità della lingua, che non alza mai la voce ma suscita ugualmente rabbia, un romanzo sulle donne e per le donne che non condanna gli uomini dentro un fondamentalismo femminista. Ci racconta, soltanto, la disuguaglianza per ricordarci l’assurdità e la violenza di questa differenza, ancora oggi che tanto è stato fatto ma tanto rimane da fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

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