L’unica verità è la parola. «Le maestose rovine di Sferopoli» di Michele Mari (Einaudi)

Con Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari torna a cimentarsi con il racconto, forma di narrazione da lui più volte praticata – questa è infatti la sua quarta raccolta – e particolarmente suggestiva nella misura in cui, a differenza del romanzo, non necessita di essere ultimativa ma può concedersi il lusso della disorganicità e della parzialità. I venticinque racconti che compongono la raccolta offrono al lettore un variegato scenario di storie in cui atmosfere gotiche si mescolano a drammi velati di farsa, non mancano le consuete virtuosistiche prove di mimetismo linguistico (come ad esempio ne Il falcone) e la straordinaria potenza evocativa della parola, capace nel racconto intitolato Sghru di risollevare le sorti di un esame universitario, o, come nel racconto Scioncaccium, fungere da formula magica in grado di esorcizzare la malattia e tutto il male diffuso nel mondo. Evocativo, d’altra parte, è anche il titolo: maestose rovine sono, a ben vedere, tutti i racconti contenuti nel libro e la loro maestosità è da ricercarsi nel rapporto strettissimo che intrecciano con la nostra tradizione letteraria. Le parole antiche e desuete riaffiorano infatti nella prosa di Mari non come cimiteriali vestigia buone solo per gli studi eruditi dei filologi ma come efficace e preciso mezzo espressivo, spesso molto più pregnante della parola d’uso corrente. Tanti sono i racconti presenti in questa raccolta che lasceranno il lettore stupito e ammirato. Eccone una breve carrellata. Argilla rielabora l’antico e sempre affascinante mito del Golem (che Mari aveva già brillantemente evocato in Tutto il ferro della Torre Eiffel), partendo da una periodica competizione fra rabbini che però sfugge loro di mano, fino a conseguenze catastrofiche, mentre Con gli occhi chiusi è strutturato in forma di carteggio tra un affittuario e la padrona di casa, in un crescendo di suspense e di inquietudine. La confidenza fra i due aumenta di pari passo al carattere perturbante della vicenda, fino al colpo di scena finale, degno di un racconto di Stephen King. In Tema in III C il compito assegnato da un maestro elementare funge da pretesto per un maleficio ordito dalla classe ai suoi danni. La cosa più interessante di questo racconto è il modo in cui Mari, simulando la scrittura, anche un po’ sgrammaticata, dei giovanissimi allievi esplori in realtà il genere del racconto fantastico con tutti i suoi paradossi, regalandoci dunque una trattazione di carattere metaletterario, sebbene camuffata da compitino in classe. Altro tema ricorrente nella raccolta, e variamente declinato, è quello del cibo: si va dalla indiavolata competizione fra due parroci dell’alta Val Seriana, appassionati cercatori di funghi, di Boletus edulis, al Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi, che già nel titolo sembra riecheggiare un’operetta morale di leopardiana memoria, passando per L’ultimo commensale, racconto in cui due personaggi continuano a conservare frammenti di cibo (ormai putrefatto) dell’ultimo pasto consumato in un’osteria – nel suo ultimo giorno di attività – al fine di potersi fregiare del titolo, appunto, di «ultimo commensale». Il succulento In cauda, nel quale reminiscenze del periodo universitario si fondono al tema del cibo in un excursus letterario-gastronomico, è un racconto di chiara ascendenza gaddiana, che culmina nella dettagliata ricetta della coda alla vaccinara. Panopticon, si ispira alla struttura carceraria ideata dal giurista inglese Jeremy Bentham nella seconda metà del XVIII secolo, che nella visione di Mari è metafora del potere magnetico e perverso che può esercitare un’idea quando questa si radica in modo ossessivo nella mente di una persona, fino a pervadere la vita intera e sostituirsi ad essa. In questo racconto, infatti, il dominatore viene dominato dalla sua idea dominante. Essa, fattasi ossessione, innesca un processo di vampirizzazione dell’esistenza che, svuotata di tutto, si riduce a null’altro che alla reiterazione dell’idea, libera ormai di contemplare se stessa senza più distrazioni. Le fonti del mondo traendo spunto dalla canzone di Jimmy Fontana, Il mondo, individua per ciascun verso tre ipotetiche fonti apocrife della più svariata provenienza, che in modo autonomo e nondimeno pertinente esprimono un concetto analogo. Un racconto virtuosistico nel quale si assiste ad un avvicendarsi di voli pindarici la cui enormità, come lo stesso gioco combinatorio, sicuramente non sorprenderà i più affezionati lettori di Mari, ormai da tempo abituati a vedere nel loro scrittore prediletto una sorta di ventriloquo che estrae da sé voci altrui con stupefacente naturalezza. Oniroschediasmi è un racconto in forma di diario in cui Mari, trascrivendo i propri sogni, ricorrenti e ossessivi, finisce per interrogarsi sulla natura stessa del sogno. Il buio, ha per protagonisti un padre e suo figlio che dialogano sul buio e sui motivi per cui è normale averne paura, in un botta e risposta serrato che conduce a un finale sorprendente, richiamando alla memoria vecchi racconti come La legnaia (in Euridice aveva un cane) anch’esso incentrato sulla paura del buio. Scarpe fatidiche racconta invece di un paio di scarpe “magiche” che condizionano non poco la vita della loro proprietaria. Ma tanti altri sono i racconti che ammalieranno il lettore, infatti ogni nuovo libro di Michele Mari è prova di grande intelligenza e acume: una collezione di fantasmi e di chimere letterarie, di sogni e di superstizioni in cui lo scrittore concentra l’essenza stessa della sua poetica, in una continua sfida ai generi e alle convenzioni letterarie, supportata da un’immensa passione per la lingua italiana, sempre usata in maniera strabiliante. Il tutto permeato da un sottile velo di ironia che assume di racconto in racconto sfumature diverse. Al lettore, che come al solito dovrà essere dotato di una vasta e robusta cultura letteraria, per poter cogliere i colti e raffinati riferimenti intertestuali disseminati qua e là, nonché le mirabolanti acrobazie lessicali e sintattiche che sorvolano diacronicamente l’intera nostra storia linguistica, non resta che sospendere, ancora una volta, l’incredulità e godersi questo stupefacente viaggio nei regni della letteratura dove ogni testo può riservare un finale spiazzante e nessuna storia significa solo quello che appare sulla pagina.

L’unica verità è la parola. «Le maestose rovine di Sferopoli» di Michele Mari (Einaudi) euro 17,10

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