L’uso politico della Storia: riflessioni sul Giorno del Ricordo
Lascia che tutto ti accada
bellezza e terrore
continua ad andare avanti
nessun sentimento è definitivo.
Rainer Maria Rilke
“Il dovere della memoria”
“Ricordare” ogni anno il 10 febbraio 1947 è importante, ma se non si contestualizza si commette un grosso errore. La violenza delle Foibe non è giustificabile, tuttavia è necessario risalire alle radici dell’odio tra slavi e italiani per capire come tutto ciò sia stato possibile. Nelle terre di confine del nord-est, abitate da secoli da popolazioni miste, slave e italiane, come la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia, è avvenuto qualcosa di veramente terribile. E se il razzismo nazista ha provocato “scientificamente” la Shoa, tutt’altro sono state le Foibe, generate da un precipitare degli eventi storici. Si inizia dall’Impero asburgico, dove si confrontano i nazionalismi contrapposti di italiani e slavi, per arrivare al primo dopoguerra delle vendette italiane, per poi, con un ribaltamento di fronte, giungere alle foibe e all’esodo di trecentomila italiani costretti a lasciare le loro case sulla costa adriatica orientale. Non voglio ripercorrere gli avvenimenti perché le persone “curiose” sapranno andare a fondo. A me preme invece rimarcare come spesso la Storia venga piegata ad uso della politica. Per decenni nessuno ha parlato del dramma degli infoibati e degli esuli perché nello scacchiere internazionale della Guerra Fredda la Jugoslavia di Tito, pur comunista, era neutrale nello scontro tra USA e URSS, mentre in Italia il conflitto politico ideologico vedeva contrapposti i governi a guida DC, atlantisti, contro il PCI, considerato “poco italiano” perché vicino ai sovietici. Nessuno aveva interesse a parlare del dramma vissuto da giuliani, istriani e dalmati. Solo con la caduta dell’Unione sovietica e la dissoluzione della Jugoslavia si è potuto “narrare” la storia di questi sventurati italiani. Piegandola, però, ad interessi di parte con strumentalizzazioni di ogni sorta. Anche qui sarebbe utile fare una ricostruzione di come si sia arrivati al 2004 con la decisione di introdurre la Giornata del Ricordo. Ogni lettore può farlo con l’obiettività dovuta, se onesto intellettualmente.
Strumenti storiografici
Uno stimolo a capire, però, ci può venire da alcune riflessioni storiografiche. Ci aiuta, in primis, lo storico Tony Judt, morto da pochi anni, che dopo aver insegnato a Cambridge, Oxford, e negli USA, a Berkeley e a New York, pubblicò il monumentale volume Postwar. Europa 1945-2005. (Laterza, 2017). Di lui consiglio, però, un testo più agile, quanto mai attualissimo nell’era della confusione politica e ideologica: L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900 (Laterza, 2011).
E’ un lavoro imprescindibile per affrontare con i giusti mezzi critici questo difficile momento. Lo è grazie ad una grande capacità di sintesi, ad un linguaggio chiaro – nel solco della tradizione anglosassone – che rende comprensibile anche le analisi più complesse. L’età dell’oblio raccoglie una serie di saggi pubblicati tra il 1992 e il 2007 su riviste e quotidiani internazionali. Non pensate però ad un lavoro raccogliticcio, dispersivo, perché c’è un filo rosso che li accomuna: la rimozione del ‘900, l’oblio sulle vicende storiche, cioè sulla Storia che non avrebbe nulla da insegnarci. Nel suo libro è soprattutto l’ignoranza della storia da parte dei governi occidentali a essere messa sotto accusa. I governanti, assoldando intellettuali di complemento, lanciarono qualche anno fa le campagne sul “dovere della memoria”, rappresentazione in pillole selezionate di un Novecento dalle sofferenze individuali, che serviva più a scopi politici interni che a capire veramente il nostro tempo. Scrive Judt: “Il ventesimo secolo è quindi sulla buona strada per diventare un palazzo della memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni sono «Monaco», «Pearl Harbor», «Auschwitz», «Gulag», «Armenia», «Bosnia», «Ruanda»; con l’«11 settembre» come una specie di coda superflua, un poscritto sanguinoso per chi avrà dimenticato le lezioni del secolo passato o per coloro che non le avranno apprese a dovere.” E le Foibe, aggiungo io. Ai libri di Judt va affiancato un altro interessante testo: La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura di Angelo Del Boca (Neri Pozza, 2009), sempre attualissimo, soprattutto in questi grami tempi di “pensiero unico”. Negli ultimi anni, una messe di storici, alcuni più o meno improvvisati, giornalisti e politici hanno cavalcato l’onda del revisionismo, volto a mettere in discussione – per motivazioni politiche ed elettorali – quella memoria storica che aveva contribuito a rafforzare negli italiani, soprattutto dal dopoguerra, una certa coscienza civile. Nell’Introduzione Del Boca scrive che si è trattato di un’offensiva volta a “riscrivere la storia contemporanea in Italia e in Europa, relativizzando gli orrori del nazismo e della soluzione finale, depenalizzando il fascismo e la sua classe dirigente, delegittimando la Resistenza e demonizzando il comunismo”. Attraverso gli ottimi saggi di dieci storici percorriamo, così, la strada del revisionismo pro domo mea: il colonialismo e il mito (quanto mai errato) del “bravo italiano”, il fascismo “rivisto” in chiave anticomunista, la guerra di Mussolini e le occupazioni feroci da parte degli italiani, il negazionismo, il ruolo del Partito Comunista e del movimento operaio nella fondazione della Repubblica. I danni provocati da questa rilettura della storia sono ormai incalcolabili. Le conseguenze? populismo plebiscitario, odio per la politica, fastidio per la questione morale, volgarità dominante, narcisismo, diminuzione del senso civico e dello Stato. E non si lamentino oggi coloro che hanno brandito negli anni l’arma del revisionismo per regolare conti politico-ideologici.
Esiste un valore morale della storia?
La ricerca storica non è mera testimonianza, ma non è neanche solo freddo raziocinio. I fatti si ricostruiscono scientificamente, poi si interpretano attraverso la cultura, e le proprie passioni. La via è questa. La questione, insomma, non è solo raccontare quel che è accaduto, quanto la trama narrativa del ricordo e la sua trasformazione in racconto per la storia. Soprattutto se non teniamo conto anche del punto di vista dell’altro, in questo caso lo slavo. Fare storia necessità di altri strumenti che rendano più oggettiva possibile la ricostruzione. Affiancato dagli strumenti della ricerca storiografica è necessaria una nuova didattica che assuma il ricordo come opportunità per tornare a riflettere sulla storia e sulle modalità di narrarla. Soprattutto è necessario prestarvi maggiore attenzione proprio quando ci si rivolge ai giovani, bisogna trovare i mezzi giusti per educare (tirar fuori da sè), perché “fare storia” è ricerca problematica, non un dato di fatto immutabile consegnatoci dall’alto da qualcuno, autorevole o, peggio, autoritario, quasi come un atto di fede. Questo è dogma non storia.