Morettiano? No, ipermorettiano. Il Sol dell’Avvenire, nuovo film di Nanni Moretti, nelle sale italiane dal 20 aprile, è la summa di tutto il suo cinema ed è senza dubbio l’opera di un Moretti in stato di grazia. Nanni è stato generoso come non mai, regalando al proprio pubblico una nuova incarnazione cinematografica di sé, il regista Giovanni, dotata di tutte le fisime, le idiosincrasie, i tic, le paturnie, i riti e le nevrosi dei più paradigmatici personaggi morettiani, che nel corso degli anni lo hanno reso a tutti gli effetti il Woody Allen nostrano. Ne Il Sol dell’Avvenire non c’è solo un film nel film, cosa che non sarebbe neanche una novità: a ben guardare ce ne sono addirittura quattro. C’è il film di Moretti che noi spettatori vediamo in sala, c’è il film che il regista Giovanni, protagonista de Il Sol dell’Avvenire, sta girando con Silvio Orlando e Barbora Bobulova che, oltre a interpretare sé stessi in quanto attori, vestono i panni di Ennio e Vera, rispettivamente un giornalista dell’Unità e una sarta, entrambi militanti comunisti della sezione PCI del Quarticciolo, a Roma, nel 1956, al tempo dell’invasione sovietica dell’Ungheria. C’è il film, tratto da Il nuotatore di John Cheever, che Giovanni sta scrivendo (e di cui discute con gli sceneggiatori in un’iconica scena ambientata in piscina, chiara autocitazione da Palombella rossa) e poi c’è un film, sul rapporto quarantennale di una coppia, che esiste ancora solo nella sua testa, nelle sue fantasticherie, ma che irrompe prepotentemente sul set del film in lavorazione, in una delle scene più belle e surreali de Il Sol dell’Avvenire, meravigliosamente sottolineata dalle note di Voglio vederti danzare di Franco Battiato, con Moretti e, a seguire, tutti gli attori e i membri della troupe che ballano come dervisci roteanti. Sì, perché in questo film ci sono anche tante bellissime canzoni, da Lontano, lontano di Luigi Tenco (1966) a Thing di Aretha Franklin (1968, tratto da The Blues Brothers), passando per La canzone dell’amore perduto di Fabrizio De André (1966) e Et si tu n’esistais pas nella versione francese di Joe Dassin (1975), fino ad arrivare alla più recente Sono solo parole di Noemi (2012). Di carne al fuoco Moretti ne ha messa davvero tanta, non lesinando, come abbiamo detto, sulle (auto)citazioni che rinviano ai film della prima parte della sua carriera, quella che dovrebbe simbolicamente concludersi, secondo quanto affermato dal regista durante la conferenza stampa di presentazione, tenutasi al Cinema Nuovo Sacher di Roma il 18 aprile, proprio con Il Sol dell’Avvenire, che tuttavia non è e non vuole essere un film testamento. Quella che Moretti ci regala è invece una pellicola vivace, fresca, generosa, solare, che ha tutto il sapore di un nuovo inizio. Di carne al fuoco ne ha messa tanta, dicevamo, ma tutto si tiene perfettamente in armonia. Il film sa coniugare divertimento e malinconia, gli ineccepibili tempi comici della commedia e le riflessioni venate di amarezza del dramma. È un Moretti a tutto tondo, quello che possiamo godere ne Il Sol dell’Avvenire, il cui lucido sarcasmo resta affilatissimo, senza tuttavia smarrire mai l’umanità. Nanni si toglie lo sfizio di lanciare una frecciatina al colosso Netflix (con la frase-tormentone «i nostri prodotti sono visti in 190 Paesi») e si concede il lusso, prerogativa unica delle menti geniali, di farci ridere e piangere all’interno della medesima scena (cosa che accade in più punti del film). Ci fornisce una lezione di cinema al tempo stesso esilarante e commovente quando, interrompendo le riprese dell’ultima scena del film che la moglie Paola (interpretata da Margherita Buy, alla quinta collaborazione, come lo stesso Silvio Orlando, con Moretti) sta producendo, inizia a discutere col giovane e rampante regista sull’opportunità o meno di inserire nel film una scena di violenza gratuita e compiaciuta che a suo avviso «fa male al cinema». Il set viene così paralizzato per ore, per tutta la notte, fino al sorgere dell’alba, mentre Moretti/alias Giovanni chiama come consulenti, a sostegno della propria tesi, l’architetto Renzo Piano, il giornalista Corrado Augias e la scrittrice Chiara Valerio che danno vita a tre irresistibili camei. Non contento il nostro arriva a fare una telefonata finanche a Martin Scorsese, cui risponde però la segreteria. Ma il momento più toccante arriva quando Moretti contrappone alla compiaciuta, autoreferenziale e come tale “pornografica” violenza inscenata su quel set, la lunghissima – sette minuti – e intollerabile sequenza dell’omicidio presente nel Breve film sull’uccidere di Krysztof Kieslowski, quella sì davvero necessaria, perché etica, ossia capace di suscitare nello spettatore il ripudio di ogni violenza (aggiungiamo che quel film, vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes 1988, si conclude con l’esecuzione, per impiccagione, dell’assassino, una scena in cui il condannato, all’ultimo momento, si ribella alla morte, scalciando e cercando di fuggire. A quel punto tutti gli sono addosso e lo bloccano, proprio come lui aveva fatto con la sua vittima mentre la uccideva. È come se Kieslowski ci dicesse che non esiste differenza alcuna fra l’omicidio commesso dall’assassino e quello attuato dallo Stato per punirlo). Sono tanti gli aggettivi che si potrebbero utilizzare per descrivere Il Sol dell’Avvenire, fra questi, e non unici, anche onirico, visionario e felliniano (c’è anche un frammento tratto da La dolce vita). Uno però inquadra forse meglio di qualsiasi altro uno snodo cruciale del film ed è “ucronico”. L’ucronia (detta anche storia alternativa), è la narrazione letteraria o cinematografica di quello che sarebbe potuto accadere se un determinato avvenimento storico fosse andato diversamente. Ed è proprio quello che Moretti fa nel suo film. «La storia non si fa con i “se”. E chi l’ha detto? Io invece la storia la voglio fare proprio con i “se”», è la riflessione del Moretti-Giovanni, che a un certo punto decide di cambiare il finale del film che sta girando. La sceneggiatura originale prevedeva che Silvio Orlando, segretario della sezione comunista del Quarticciolo, che aveva invitato a Roma il circo ungherese Budavari, di fronte alle immagini di una Budapest messa a ferro e fuoco dai carri armati sovietici – immagini che avevano suscitato un’immediata e spontanea solidarietà dei comunisti italiani nei confronti dei circensi ungheresi – facesse i conti con l’impietosa direttiva di Palmiro Togliatti, che imponeva assoluta fedeltà alla linea sovietica, scegliendo l’atto estremo del suicidio. Ma Moretti decide improvvisamente che no, non può essere quello il finale, ed è qui che il film, iniziato con un Giovanni che strappa via dal set il manifesto di Stalin perché «Stalin era un dittatore e io nel mio film non ce lo voglio», diventa veramente «sovversivo», come pronosticato da Pierre, l’amico produttore interpretato da Mathieu Almaric, nella scena in cui i due girano in monopattino – segno che i tempi sono davvero cambiati – nel quartiere Mazzini di Roma, ennesima autocitazione, questa volta della scena della Vespa (che ora fa bella mostra di sé , tra i cimeli della settima arte, al Museo del Cinema di Torino) di Caro diario. Un film sovversivo e ucronico, dunque, nel quale a prevalere è la linea di chi quella vergogna storica non può e non vuole accettarla: il Partito Comunista Italiano si sgancia dall’orbita dell’Unione Sovietica e realizza compiutamente l’utopia socialista di Marx ed Engels. Un sogno felice che – così ci comunica la didascalia finale del film – perdura ancora oggi. È un momento di sogno e di leggerezza, ma non di disimpegno, in cui il cinema raddrizza le storture e le brutture della Storia. Il tutto si conclude con la pittoresca e festosa parata ai Fori Imperiali, in cui accanto ai circensi e a tutto il cast de Il Sol dell’Avvenire sfilano molti degli attori che hanno preso parte ai film precedenti di Moretti, in quello che sembra a tutti gli effetti un trionfo (nell’accezione in uso nell’antica Roma) del cinema morettiano: un finale autocelebrativo che tuttavia perdoniamo ben volentieri dinanzi alla bellezza di un’opera che ci consegna un Moretti in gran spolvero, pronto, alle soglie dei settant’anni (li compirà il prossimo 19 agosto), a dispensare nuove piacevoli sorprese al suo pubblico e chissà, magari, a regalare al cinema italiano una nuova Palma d’Oro, che manca al nostro Paese dal 2001, quando a vincerla fu proprio Nanni Moretti con La stanza del figlio, ventitré anni dopo L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Perché una cosa è certa, Vers un avenir radieux – così oltralpe, con un pizzico di sarcasmo, presente anche in quello italiano, hanno tradotto il titolo del film, ripescando un vecchio slogan della Sinistra francese – in Francia piacerà da matti.