Al Teatro del Canovaccio di Catania, lo spettacolo vincitore del Premio Sicilia di Scena 22/23 del Teatro Biondo di Palermo
testo di: Valeria La Bua, con: Marta Cirello e Davide A. Toscano
regia: Valeria La Bua e Davide A. Toscano
scene: Mariella Beltempo e Rosalba Cannella
produzione: Teras Teatro e Bottega del Pane
Ci sono artisti che hanno una sensibilità portata naturalmente verso alcuni temi, alcuni aspetti della riflessione da cui scaturisce la creazione. Valeria la Bua, scrittrice, regista, attrice catanese è una di queste artiste che è particolarmente attenta al tema del male che si insinua nell’uomo, che scava dentro le anime, anche le più innocenti, portando una persona ad agire contro ogni logica in un vortice di azioni delittuose, omissioni, scelte terribili e desiderio di vendetta.
Non più di un anno fa questa sensibilità l’ha portata a rileggere con magistrale attenzione uno dei racconti più cupi di Fedor Dostoevskji, La mite, di cui, insieme a Davide A. Toscano, curò la regia del suo riadattamento teatrale. Quest’anno, per la rassegna Reazioni del Teatro del Canovaccio, ha portato in scena un testo che racconta tre episodi di cronaca (più o meno recente) che rappresentano “una brutalità insita nell’essere umano che pare essere una costante e che non muta, nonostante il passare del tempo…” (note di regia)
Il testo, -in scena il 12, 13 e 14 gennaio e ancora in programma il 19,20 e 21- porta il titolo di Radio killers perché i tre episodi sono collegati tra loro dalla radio che con i suoi notiziari dà, di volta in volta, le notizie relative ai tre drammatici fatti di cronaca.
Il primo episodio è ambientato nel 2017 in una località al confine tra la Francia e l’Italia dove arrivano grandi quantità di immigrati clandestini che la gendarmerie è costretta a respingere verso il confine italiano. In uno di questi concitati momenti una donna incinta muore per la fatica di aver camminato a lungo sulla neve e perché non aveva ricevuto nessun soccorso. Per comprendere le responsabilità dell’accaduto le autorità francesi aprono un’inchiesta e chiamano a deporre uno dei funzionari in quel momento in servizio. Il racconto inizia, infatti, esattamente dalla dichiarazione che la gendarme francese fa una volta chiamata a rapporto sulla vicenda. La confessione su quei momenti grava sul senso di responsabilità che la giovane guardia ha avvertito in quei momenti e sulle scelte, quasi obbligate, che è stata chiamata a fare. Siamo nella Francia turbata dagli attentati terroristici di quegli anni e lei, racconta, è stata educata a un forte senso patriottico, al vincolo sacro della “grandezza della Francia” e, per questo, si sente spinta solo da un alto senso del dovere. Il pianto della donna nigeriana che lamenta forti dolori, che chiede aiuto, non scalfisce la necessità del rispetto delle regole. La donna non può entrare in territorio francese. Questa l’unica legge applicabile: il protocollo. Le conseguenze non sono imputabili a lei. Così si difende la gendarme, in nome del ruolo che ricopre, dimenticando di essere umana, non considerando la possibilità di una scelta diversa.
Il secondo episodio è inserito in una dimensione domestica, quotidiana dove il tarlo del male, inteso come vendetta necessaria come riscatto economico e riconoscimento di diritti calpestati, si insinua lentamente nella mente di una coppia di giovani sposi la cui esistenza è costantemente disturbata dai soprusi e la prepotenza di vicini di casa rumorosi e maleducati. La sopportazione arriva al limite, la rabbia prende il sopravvento, il pensiero della violenza come unico strumento risolutorio si fa strada lentamente fino ad esplodere e a provocare una strage.
Il terzo momento è legato a un passato più remoto, il 1985, anno in cui una grande star della musica pop internazionale scampò a un tentativo di aggressione nel quale persero la vita le sue guardie del corpo ma lui si salvò. A organizzare l’attacco, con un arco e le frecce, era stato un padre al quale, poco tempo prima il cantante aveva investito il figlioletto, che era suo fan, riducendolo a un tronco umano. Anche qui il desiderio di vendetta si insinua e cresce nell’animo dell’uomo che si trova impotente di fronte alla sorte terribile del figlioletto.
Ciò che rende accattivante il racconto di questi tre episodi è che il punto di vista da cui procede la ricostruzione dei fatti è quello di “chi uccide”, proprio come fa Dostoevskji. Valeria La Bua ha la grande capacità di ricostruire le dinamiche interne, la psicologia dei personaggi che arrivano a concepire il male, la morte come una soluzione o come una conseguenza invitabile. Il processo di indagine della scrittrice ci porta a comprendere “la banalità del male” (lei stessa cita la Arendt) come un sedimento oscuro, presente nei personaggi ma che lo spettatore è costretto a sospettare sia anche dentro di sé, nel profondo “sottosuolo” (per restare nell’immaginario dello scrittore russo) della sua anima.
A dare corpo a questi carnefici, vittime del male, due attori che si alternano e si incrociano sulla scena che sono Marta Ciriello e Davide A. Toscano che cura, insieme alla stessa La Bua, la regia.
Della regia ci è piaciuto, particolarmente, l’uso di tre apparecchi radiofonici dai quali si sente la notizia del GR, che appartengono alle tre epoche diverse; il richiamo al cosiddetto “uccellino della radio” che introduceva, un tempo, l’inizio delle trasmissioni e la riproduzione del suono gracchiante delle frequenze che si cercavano sulle manopole di quegli strumenti di un tempo, un tempo lontano. Altra trovata simbolica, e fortemente legata a tutta la riflessione che il testo ci suggerisce, è quella di un marchingegno con grandi rotelle dentate che girano a rappresentare il meccanismo esistenziale dentro al quale si muovono le nostre vite inesorabilmente.
Radio Killers è un testo teatrale/filosofico che, dietro un’apparente semplicità narrativa, suggerisce allo spettatore attento un pensiero profondo, disarmante ma lucido, senza pietismi, senza retorica ma pungente e penetrante come quel tarlo che potrebbe annidarsi dentro ognuno di noi.