Un buio tutto umano: i versi di “Scurau” di Giuseppe Nibali
L’immagine cruda del coniglio scuoiato – “n’aranata senza scoccia“ [una melagrana senza scorza] – resa ancora più drammatica dalla forza espressiva del dialetto – chiude “Scurau” (uscito per i tipi di Arcipelago itaca Edizioni) di Giuseppe Nibali, e conferma immediatamente il senso di tutta la seconda raccolta del poeta siciliano: l’esplorazione tragico-sacrale del pre-umano (che Ilaria Mei traduce anche nel bianco e nero icastico delle sue illustrazioni). Una poesia che non consente scorciatoie sentimentali e non lascia spirali di redenzione se non entro la sua stessa forza ermeneutica e centrifuga, lanciata quasi come progetto chimerico: “entrarci ancora vivi, dentro il nero“, appunto. Un nero esistenziale, antropologico e filosofico: già la stessa scansione tripartita del volume assume una connotazione dialettica. Se Antropocene, la prima sezione, riflette sul dominio dell’artificiale e la successiva – Predazione – evoca lo stato di natura, il momento hobbesiano della guerra di tutti contro tutti, la conclusiva Scurau, articolata nella forma asprigna e secca del dialetto catanese, segna il punto più profondo della raccolta: lì dove il linguaggio e la parola precipitano. Il termine “scurau” (traducibile con un insufficiente “fa definitivamente buio”) afferisce ad una sorta di deluge risolutivo, di irreparabile sentenza di fine, di sospensione irrevocabile di ogni attività; insomma: è tardi per tutto – e se la poesia si fa dunque ingresso in questa sospensione-devastazione, è nell’estremo limite dell’abisso che sembra aprirsi un varco: attraverso la parola che addita e descrive, svela e denuncia, convocando ogni coscienza nel linguaggio. La natura impressionistica della poesia di Nibali (con un occhio di riguardo a molta della narrativa distopica contemporanea: da Burgess a McCarthy) investe una realtà non concettualizzata ma terribilmente data entro un tempo (nel senso più proprio del termine) nel quale l’umanità ha costantemente mancato il suo kairos diventando una macchina-animalesca: “u chiantu ni padrunia, u scantu” [il pianto ci governa, lo spavento]. In una efficace alternanza di versi e di prosa, entrambe screziate di dialettismi (scantu, arrimina, palummi), di latinismi (morituri, flare), di lessemi rari, colti e specialistici (mencio, sgruma, ribosio, trofallassi, asterisma, seritteri, coppella), addirittura di neologismi (acqueneri), si dispiega dunque una poesia feroce che fa del e nel linguaggio la sua forza critica ed utopica ad un tempo: è sì catabasi nella storia ma al contempo limite del limite estremo del non-ritorno da cui poter recedere “e cercare una via di scampo – come nota Tommaso Di Dio nella efficacissima postfazione – dall’orrore che siamo“. Ecce homo allora: allo scantu evocato dalla pelle scorticata del coniglio dunque forse è possibile sottrarsi, tentare una sortita della coscienza, risalire il buio e scavarlo fino alla luce di una umanità altra e della stessa poesia.