Al Teatro Stabile di Catania, adattamento e regia Giovanni Anfuso, con Giuseppe Pambieri, Paolo Giovannucci, Stefano Messina e con Davide Sbrogiò, Liliana Randi, Carlo Lizzani, Geppi Di Stasio, Marcello Montalto, Luigi Nicotra, Giovanni Carpani.
Scene Alessandro Chiti, costumi Isabella Rizza, musiche Paolo Daniele, luci Pietro Sperduti.
Sono passati quasi cinquantacinque anni da quella terribile notte fra il 17 e il 18 ottobre del 1969 in cui una delle opere più belle di Caravaggio fu trafugata dall’Oratorio di S.Lorenzo a Palermo, dove era rimasta per oltre tre secoli, la Natività.
Da allora le indagini e le ricerche non si sono mai fermate e si sono allargate a tutti i rami della malavita, dalle organizzazioni mafiose locali, alla grande mafia internazionale; se ne era occupato anche Giovanni Falcone che aveva raccolto le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia in merito al furto e alla sua commissione.
Nel 1989 Leonardo Sciascia si occupa del caso nel suo ultimo romanzo, Una storia semplice, indicando così, nel paradosso del titolo, la complicata vicenda di questo furto.
L’autore siciliano, che ha scritto anche tanto altro, è noto soprattutto per la sua predilezione per i gialli o romanzi polizieschi, che egli scrive traendo quasi sempre spunto da fatti di cronaca. Sciascia ha sempre ritenuto che i suoi fossero romanzi-saggio nel senso che le sue sono riletture in forma di re-invenzione narrativa dei fatti di cronaca. Spesso si era occupato di un omicidio o altro evento misterioso come giornalista e poi lo aveva recuperato e messo in forma di racconto con il procedimento dell’indagine. Aveva fatto così con il suo primo successo Il giorno della civetta, e poi con con L’Affaire Moro, con La scomparsa di Majorana e con questo ultimo lavoro.
Il procedimento era sempre quello dell’indagine -dentro la quale Sciascia ha spesso messo in discussione il ruolo dello Stato nella figura dei suoi rappresentanti- finalizzata alla scoperta della verità.
La forma del romanzo poliziesco di per sé implica la presenza del tema della morte, del tempo e della tecnica della narrazione. Il meccanismo dell’indagine implica la necessità di ricorrere a flash-back, interrogatori, reminescenze, ricostruzioni, soliloqui.
Tutto questo troviamo nel giallo di Sciascia e tutto questo ha tentato di recuperare e riprodurre nella forma diretta del testo teatrale Giovanni Anfuso curando la trasposizione e la regia del testo in scena al Teatro Stabile di Catania dal 11 al 16 aprile.
Su una scena arredata in modo neutro ( a cura di Alessandro Chiti), ad apertura di sipario si presentano quelli che saranno i personaggi di questa intricata vicenda che saranno guidati dal Professor Franzò, interpretato da Giuseppe Pambieri, grande mattatore del teatro italiano e qui particolarmente sobrio, elegante, concreto nel suo ruolo, un po’ pirandelliano, che è quello di sottoporre ogni possibile verità all’analisi del dubbio.
L’operazione di Anfuso ci è apparsa riuscita dal punto di vista della trasposizione del testo. Originale la trovata di affidare al personaggio contemporaneamente le battute e la didascalia sull’azione compiuta e lo stato d’animo del singolo. Si è costruito così un doppio gioco visivo e immaginativo dove lo spettatore rimane in parte lettore del vero testo di Sciascia, in parte passivo osservatore della scena. Meno riuscita, però, la volontà di portare il tutto sul piano della parodia dove i personaggi -fatta eccezione del Professore e del Brigadiere- appaiono come macchiette, marionette caricate di una gestualità e una recitazione ritmata e veloce che smarrisce il profondo senso di inquetudine del romanzo. I dilemmi sullo Stato, sulla giustizia, sul rispetto dei ruoli e delle regole, sulla natura umana, sono tutti nel romanzo che per molti è considerato il testamento spirituale di Sciascia, e sono il frutto di una riflessione -da illuminista quale era- lucida e cinica.
Alcune trovate sono sicuramente di impatto, per esempio il commento musicale (di Paolo Daniele), soprattutto nella sovrapposizione tra i tasti del pianoforte e il ticchettio della macchina da scrivere.
Accanto a Pambieri, abbiamo già detto, bravo e decisamente contenuto in una posizione di commentatore e testimone, in un contesto di attori e attrici ridimensionati nella costruzione parodica, spiccano un commovente Paolo Giovannucci nel ruolo del brigadiere, personaggio autentico, e Marcello Montalto nel ruolo dell’”Uomo della Volvo”, testimone involontario di quello che “non ha visto”.
Bell’effetto scenico è reso dalle luci, ad opera di Pietro Sperduti, caricate di un forte simbolismo, come nella scena in cui le diverse cariche dello Stato vengono illuminate dai colori della nostra bandiera, come a indicare il male tutto italiano che riguarda la giustizia e i delitti incompiuti, come questo raccontato in una storia che “semplice” non è, ma è emblematica.
Le battute conclusive sono il vero testamento di quello straordinario autore siciliano al quale dobbiamo tanto e che dovremmo riconoscere molto di più: “Non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”.