di Luigi Pirandello, regia di Luca De Fusco
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fuscoscene e costumi Marta Crisolini Malatesta, luci Gigi Saccomandimusica Ran Bagno, movimenti coreografici Noa e Rina Wertheim, proiezioni Alessandro Papa

Personaggi e interpreti

L’ignota Lucia Lavia
Salter Francesco Biscione
Mop/demente Alessandra Pacifico
Boffi Paride Cicirello
un giovane/dottore Nicola Costa
un giovane/ Masperi Alessandro Balletta
Zia Lena Alessandra Costanzo
Zio Salesio Bruno Torrisi
Bruno Pieri Pierluigi Corallo
Ines Isabella Giacobbe

Fino al  29 gennaio torna Pirandello al Teatro Stabile di Catania.

Con la nuova regia di Come tu mi vuoi, Luca De Fusco, direttore e regista,  ha voluto proporre al pubblico catanese un dittico pirandelliano, ritornando, dopo pochi mesi dalla fortunata rappresentazione di Così è se vi pare, sul tema più ricorrente nel teatro dello scrittore siciliano, il tema della mancanza di identità.

I due drammi teatrali, anche se distanti nel tempo, hanno molto in comune, si potrebbe dire ripercorrano uno schema narrativo che parte dall’indagine sull’identità, dalla volontà di smontare prove e documenti che certifichino l’essenza di una vita, e arriva alla non-verità, al mancato disvelamento finale di certezze che il relativismo gnoseologico del Novecento, soprattutto in Pirandello, avevano frantumato.

La commedia in prosa fu composta, nel 1930, da Luigi Pirandello (prendendo spunto da un fatto di cronaca molto noto allora, la vicenda dello “smemorato di Collegno”), per Marta Abba e fu costruita su di lei, per dare alla grande attrice, sua musa, un testo articolato e complesso che fosse una “prova d’attore” altissima.

La protagonista viene descritta, nella prima scena, come una donna, Elma,  dalla vita dissoluta che si divide tra l’amore dello scrittore Salter e quello della figlia di lui. Un giorno viene riconosciuta da Bruno Pieri che vede in lei la moglie che aveva creduto morta per dieci anni, dopo che lui, di ritorno dalla guerra, aveva trovato la sua villa ad Udine distrutta e la moglie scomparsa.

Malgrado le proteste di Salter, la donna, traumatizzata da una violenza subita e in evidente stato di confusione sul suo passato,  decide di seguire Bruno e di recarsi nella villa di Udine e riunirsi a quella famiglia, la zia Lena, lo zio, la sorella, che la riconoscono e la accolgono come Cia, la donna scomparsa misteriosamente. Qui giungerà Salter per pretendere di riportarla con sé.

Insieme, presunti parenti e presunti amanti intesseranno intorno all’ “ignota” un processo alla ricerca di prove, come un neo che la donna avrebbe sulla coscia, documenti e una confessione che risolva l’enigma. Per negarci la soluzione Pirandello, a questo punto, ribalta la quasi accertata verità, portando in scena un altro personaggio, una donna demente (alla quale un evento traumatico aveva sottratto ogni capacità cognitiva) che i medici hanno identificato come la vera Cia. Dunque?

Il nome, la forma, l’identità per Pirandello sono le maschere, le sovrastrutture che ingabbiano l’esistenza. Più volte la donna grida la sua volontà di fuggire, non da un luogo preciso , ma dal suo dover essere e non volere essere.

Lei è Cia e non lo è, dichiara a tutti la sua impostura e poi la spiega articolando un ragionamento impeccabile e umoristico quando gli zii si convincono di averla riconosciuta dalla somiglianza perfetta con un quadro che la ritraeva, giovane e bella. Sono passati dieci anni e una guerra, come potrebbe essere la stessa identica donna del quadro? Il dubbio, la risata sarcastica gela i presenti. In questo dramma Pirandello non ha collocato un personaggio che incarni se stesso, non c’è un Laudisi (come in Così è se vi pare), non un Ciampa (come nel Berretto a sonagli). l’alter ego dello scrittore in scena è lei, la donna sconosciuta portatrice della filosofia del dubbio. Per Marta Abba,  lo scrittore aveva costruito un personaggio vittima della sorte ma consapevole, tragicamente vero per avere gettato la maschera, e portatrice di lunghe elucubrazioni che espongono il tema della vicenda.

 

Uno dei drammi più difficili, nel linguaggio e nell’interpretazione  che il regista ha saputo rileggere mantenendosi fedele al testo che viene rispettato anche se le soluzioni sceniche moderne restituiscono l’effetto di una narrazione su più piani secondo modalità alle quali il pubblico è da tempo abituato. Proiezioni di immagini e  video    si sovrappongono e interagiscono coi movimenti di scena di Lucia Lavia (guidata dalla coreografia di Noa e Rina Wertheim),  che, con il suo fisico scultoreo,  alterna  pose plastiche, azioni coreografiche, e una grande perizia nella recitazione.

Il compito era difficile, arduo. Quella prova d’attore richiesta alla protagonista prevede un grande controllo della vocalità, una mimica facciale (evidenziata per gli spettatori dalla videocamera puntata su suo volto), una pantomimica che l’attrice mantiene dal primo momento all’ultimo. La Lavia porta in scena un doppio carico: l’eredità di questo ruolo e il suo cognome, rispetto al quale, in verità, ha ormai poco da dover dimostrare, soprattutto dopo la sua esibizione ne Le Baccanti al Teatro Greco di Siracusa nel 2021.

Attorno a lei un coro di attori che, con la guida sapiente della regia, hanno dimostrato di saper entrare nel ruolo. Degna di nota l’interpretazione di Alessandra Costanzo, zia Lena, forte della sua esperienza teatrale, attrice di mestiere, qui in un personaggio drammatico per il suo essere portatrice di dubbio, sentimento, ma anche interesse economico.

Le musiche, di Ran Bagno, suggellano, accompagnano, commentano parole e movimenti contribuendo a confezionare uno spettacolo che semplifica le difficoltà e accompagna il pubblico dentro un vortice di emozione e razionalità (schiacciata).

 

 

 

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