DEACADENZE. Al Teatro del Canovaccio

 

Performance tratta dal testo di Steven Berkoff, traduzione di Giuseppe Monfridi e Carlotta Clerici.  Con Alice Sgroi e Francesco Bernava, regia e adattamento di Giovanni Arezzo, produzione Mezzaria teatro.

La realtà si sclerotizza allo specchio.

Premiato con un riconoscimento importante che il Teatro Stabile di Catania, nel 2020, ha voluto attribuire alle migliori proposte teatrali, “Catania premia Catania”, Decadenze, al Teatro del Canovaccio,  è stato uno spettacolo nuovo e sorprendente, una vera performance per due attori che, da soli, si sono contesi (è il caso di dirlo) il palcoscenico dando prova di sicuro mestiere, autentica passione e personale linea di interpretazione: Alice Sgroi e Francesco Bernava.

Una storia moderna (il testo è del 1981), che mette a fuoco le debolezze (infinite) dell’umanità, le fragilità della coppia, le crisi delle coscienze, le isterie dell’individuo, l’enorme difficoltà delle relazioni interpersonali.

Quattro personaggi sono disegnati dalla penna di Berkoff, (tradotta in italiano da Giuseppe Monfridi  e Carlotta Clerici)  ma egli stesso indicò che dovessero essere interpretati da due soli attori, in uno scambio di ruoli che si alternano fra donne, mogli, mariti e amanti. Amanti famelici di sesso, droga e alcool, che si cannibalizzano a vicenda. Si amano famelicamente e si odiano in una spirale abissale che porta i due doppi verso le loro infime decadenze.

Si tratta di una pièce che sta a metà tra il teatro di parola e la performance attoriale a tutto tondo. Senza alcun dubbio la parola è sovrana, una parola sciorinata attraverso versi che hanno una loro “identità linguistica ricercata e mai banale”, dei versi costruiti con una tale potenza di narrazione che diventano scenici, assumono essi stessi una forma concreta su uno spazio vuoto, volutamente vuoto anche nella scelta registica di Giovanni Arezzo, caratterizzato soltanto da macchie di colore -nei costumi-  e di luce, che costruiscono un luogo dentro al quale si muovono i due doppi personaggi.

Ma questa parola così scolpita nella metrica densa e colorita, a tratti volgare, a tratti sublime, richiede un’interpretazione da grandi performer. E questo sono Alice Sgroi e Francesco Bernava.  Sono naturali nella loro forzatura, delicati nella loro isteria.  Si muovono, mimano, ballano, creano, gesticolano e proiettano attorno a sé ambienti e circostanze oggettivamente non presenti sulla scena ma evocati dalla loro presenza. Si percepisce la grande fatica fisica e mentale che un testo di questa portata richiede agli interpreti e si percepisce uno studio e una ricerca approfondita per entrare e uscire dai personaggi doppi, per declamare versi che non lasciano spazio al respiro, per incarnare una femminilità e una mascolinità esasperati, molto caratterizzati, ma autentici.

Operazione molto difficile, con una struttura drammatica che è una vera e propria raffica d’artiglieria di racconto e dialogo, una metrica velocissima e martellante, un testo rock carico di assonanze e suggestioni foniche, rese magistralmente anche dai traduttori.

C’è una sintonia perfetta, orchestrata dalla regia di Giovanni Arezzo, fra i due attori, una sensualità prorompente nella loro fisicità che richiama costantemente al bisogno feroce di essere amati, bisogno che è di tutti noi. Per questo si crea una coincidenza, una corrispondenza tangibile tra ciò che accade sulla scena, anzi ciò che la parola fa accadere, e il pubblico che abbandona ogni falso pudore per comprendere quel desiderio così gridato, così aperto e manifesto, così erotico.

Un altro elemento costruisce metaforicamente la scena e il passaggio da una coppia all’altra: un intervento musicale che come un sipario, come un cambio di quinte sullo sfondo, sposta il dialogo verso l’altra faccia del doppio. Questo accompagnamento musicale, in un mix tra rock e beat, archi e elettronica, è affidato alla creazione originale di Orazio Magrì; le luci, che hanno lo stesso ruolo della musica, sono di Simone Raimondo e i costumi, di Garzia Cassetti, che accompagnano i movimenti e le trasformazioni, nel personaggio femminile, hanno un valore simbolico, come macchie di colore che suggeriscono l’atmosfera beat e l’eccessività del tutto.

La performance parla di noi, il testo, che andrebbe ascoltato più volte per coglierne ogni sfumatura, parla a noi e parla oggi più che mai “della necessità del Teatro che è l’unico luogo all’interno del quale possiamo riuscire a guardarci allo specchio” (note di regia)

 

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