Oga Magoga di Giuseppe Occhiato «I mostri, la guerra, gli eroi»
«Fara si preparò. Si sciolse le trizze e sciaventò la capellatura lucente sulle spalle. Nel suo aspetto si annugolavano tempeste, dragonare, ventirogani. S’inginocchiò sulla praia, rivolta verso la costiera bagnarota dove quel trastullante a quell’ora doveva già essere arrivato. Si cacciò, allora, fuori dalla scollatura le mammelle che erano bianche come il latte, morbide e gonfie come forme di tuma e, tenendole sollevate con le mani, affissò il riconco dei celesti e partì con le maledizioni contro di lui.»
La prima volta che ne sentii parlare era il 2011. Su Il primo amore Antonio Moresco ne aveva scritto in modo entusiasta. Il libro era, però, praticamente introvabile. Lo cercai in Biblioteca ma era stato dato in prestito, intanto ero riuscito a procurarmi due testi minori, Carasace (Editoriale progetto 2000,1989), dallo stesso editore del capolavoro, e Lo Sdiregno (Rubbettino, 2006), che erano solo un assaggio rispetto all’opera magna. Intanto la fama dell’autore cresceva tra gli addetti ai lavori, mancava però il successo di un pubblico più vasto. Nel 2019 una nuova pubblicazione (da Gangemi) lo lanciò nelle librerie, ma anche per il prezzo elevato non ebbe riscontro tra i lettori. Da poche settimane Oga Magoga di Giuseppe Occhiato (il Saggiatore, pp. 1299, euro 29) con la coinvolgente prefazione di Andrea Gentile e la curatela di Emilio Giordano, uno dei massimi esperti dell’autore calabrese, è tornato nuovamente in libreria in una edizione economicamente più sostenibile e a più grande tiratura. Occhiato nasce come esperto di architettura medievale, in particolare di quella normanna. D’altra parte Mileto (in provincia di Vibo Valentia), la città dove era nato nel 1934, era stata una delle capitali meridionali dei temibili uomini del Nord. Solo negli anni ’80 si trasferì a Firenze, dove morì nel 2010. La storia si dipana tra la Sicilia dello sbarco degli Alleati, dove Rizieri è sergente di artiglieria, e l’8 settembre, quando l’azione si sposta in Calabria, dove rientra il protagonista. Ora farei un torto a tutti se provassi a riassumere la trama di questa che è stata definita un’opera-mondo. Non ci riuscirei per due motivi: il primo, perché ne ho letto solo qualche centinaio di pagine, il secondo, perché è quasi impossibile giungere a sintesi data la mole dell’opera. Allora perché scriverne o meglio consigliarne la lettura? Il motivo è presto detto: basta immergersi nelle prime pagine per capire la straordinaria qualità letteraria di Oga Magoga. Abituati a decenni di (spesso) striminziti romanzi italici, affrontare un’opera del genere può spaventare per la complessità costruttiva e per la lingua utilizzata che ci sprofondano in un oceano di parole e suoni che sostengono vicende epiche e mitiche di una terra arcaica stravolta dalla modernità delle vicende belliche. Ecco il folgorante incipit: «Finchè non arrivò là, proprio in vicinanza delle case di Santocostantino, la stella farota ancora gli luccicava nella mente; ma il suo splendore era stato a poco a poco offuscato da quello della stella diana che si faceva sempre più vivo e tralucente. Erano le prime due stelle del Tre Bastoni suo particolare, ed erano due femminuzze scelte, la prima annomata Mata Fara e la seconda Dianora; la terza, che ancora doveva pigliarselo in carico, era annomata morte, anzi Mortedamazza, oppure Mortemagara, affanculo a issa.» Due mesi almeno di lettura – come ha scritto qualcuno – per una colossale opera di denso e impegnativo narrare, un «universo letterario fatto di stelle, minotauri, soldati, incantesimi, dee, miti, leggende. Un’opera-mondo composta lungo cinquant’anni di scrittura.» Un lavoro iniziato ben prima del 1975, l’anno in cui vide la luce Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, a cui il romanzo di Occhiato è stato accostato. Così si esprimeva l’autore calabrese (in Emilio Giordano, I mostri, la guerra, gli eroi, Rubbettino, 2010): «Desidero fare una considerazione. E, se la faccio, non è certo per crearmi una forma di giustificazione, ma solo per rivendicare l’originalità dei miei libri. Si tratta di due percorsi paralleli che affondano in una comune matrice morfologica e lessicale della lingua. Fra la Calabria centro-meridionale e la Sicilia orientale vi è, infatti, un substrato di forme e strutture linguistiche, di lessico e sintassi, di espressioni e modi di dire, che rende molto simili le parlate di qua e di là dello Stretto: ecco cos’è, secondo me, che può far apparire simili le due forme quelle di Oga Magoga, da una parte, e quella di di D’Arrigo e Camilleri, dall’altra.» Questa citazione riportata da Andrea Gentile nella nuova edizione del colossale romanzo di Occhiato fa il punto sulla ricezione di un autore misconosciuto a molti e assimilato da frettolosi lettori (anche malevolmente in alcuni casi) all’autore di Horcynus Orca. In una nota che compare alla fine di Oga Magoga Occhiato scrive: «La vicenda e la cornice storica del romanzo risalgono a quando ero un ragazzo di quasi dieci anni. Nell’estate del ’43 si verificò il bombardamento di Carasace, mentre io e i miei eravamo sfollati a Jòrii. Restammo nei campi per tutta quell’estate, fino all’otto di settembre. Per me furono giorni indimenticabili. Tra il ’54 e il ’56 scrissi la prima stesura del romanzo. Successivamente la distrussi, ma subito dopo la recuperai ricomponendola pezzo per pezzo come un mosaico. Tra il ’59 e il ’60 mi applicai alla seconda stesura. Nel ’63 alla terza, inviata a diversi editori per la pubblicazione ma respinta perché di ambientazione calabrese, e nel ’77 alla quarta. Nel 1981 la riscrissi per la quinta volta. Quasi una vita. Nel 1989 pubblicai Carasace, il giorno che della carne cristiana si fece tonnina, una cronaca-romanzo in cui descrivevo l’episodio più cruento di quell’estate, e in una dozzina di pagine condensavo pure la vicenda di Rizieri e di Orì. Nessuna delle precedenti stesure fu pubblicata. La presente è stata composta ed elaborata in nove anni di lavoro, tra il mese di gennaio del 1990 e il mese di novembre del 1999. I personaggi e i luoghi, salvo qualche modifica, sono quelli della stesura originaria.(Firenze, dicembre 2000).» Il romanzo viene pubblicato per la prima volta in tre spessi volumi e poche centinaia di copie da Editoriale progetto 2000, una piccola casa editrice di Cosenza. Anche per le poche centinaia di copie stampate, la cattiva diffusione e per il prezzo elevato il pubblico dei lettori non ne viene a conoscenza. Sono in pochi a rendersi conto del valore dell’opera al di là della cerchia degli specialisti. Antonio Moresco è uno di questi. Così scriveva poco dopo la morte dello scrittore: «Ricevo (dalla vedova ndr) questo incredibile libro, per la cui lettura, nei prossimi mesi, voglio trovare lo spazio e il tempo nella mia vita.» Ribadiva l’autore de I canti del caos qualche anno dopo (2019) in occasione della ripubblicazione dell’opera-mondo di Occhiato per l’editore Gangemi (purtroppo sempre a un prezzo elevato): «Perché succede anche questo, di dover leggere un giorno sì e uno no le solite lagne sugli scrittori italiani che scriverebbero tutti in una lingua piatta e televisiva e poi di vedere libri che dimostrano in modo clamoroso il contrario camminare da soli nella notte che ci circonda. E poi c’è anche un’altra cosa da dire, mi pare: l’ostracismo nei confronti della ricchezza linguistica e mitico-esistenziale che si sprigiona a volte dall’immaginario del nostro sud, che appaiono evidentemente fuori misura a chi legge e tara i libri col bilancino e con piccoli standard. In questi anni, da molti anni, vivere in Italia è fonte di infelicità, non solo per le note vicende politiche ma anche per quello che sta succedendo nel nevralgico mondo della cosiddetta cultura o in ciò che resta di essa (…) Ma forse hanno ragione loro: che cosa c’entra tutta questa potenza, ricchezza e bellezza con l’Italia di merda di questi anni?». Appunto. Saluti dal paese di Og e Magog, terra così lontana da essere abitata da genti selvagge e senza Dio.
P.S. Se volete saperne di più su Giuseppe Occhiato e sulla sua opera vi indirizzo al link della Rivista di Studi Italiani che nel 2019 gli dedicò il numero di aprile.
http://rivistadistudiitaliani.it/rivista.php?annonum=2019e1